Di Monica Quirico e Roberto Salerno *
Il primo caso accertato di coronavirus in Svezia risale al 31 gennaio. A febbraio il contagio è ancora limitato, e “importato” dalle località sciistiche di Italia, Svizzera e Austria; a marzo il numero dei casi aumenta. Dall’inizio, è l’Agenzia per la sanità pubblica (Folkhälsomyndigheten) ad assumere la gestione della pandemia, come è normale in un paese in cui anche in situazioni di crisi sono gli enti competenti sui vari settori sociali – come il Welfare, l’immigrazione o la sanità – ad avere l’ultima parola, non il governo.
Gli epidemiologi dell’Agenzia per la sanità pubblica esplicitano dall’inizio le linee guida che orienteranno il loro approccio. Innanzitutto, chiariscono come un’epidemia – e a maggior ragione una pandemia – non sia un problema esclusivamente sanitario: la società non è un ospedale, e per affrontare una tale crisi occorre mettere in campo un ampio spettro di competenze: mediche ovviamente, ma anche economiche, sociali, psicologiche, organizzative.
Proprio per questo sottolineano come non possa esistere una strategia universale di argine al contagio, perché ogni paese deve trovare la soluzione più in sintonia con il suo contesto demografico, sociale e culturale, oltre che sanitario. Infine, indicano come obiettivo della linea svedese non il contrasto ferreo del virus, bensì il suo contenimento.
Su quest’ultimo punto ci sono state molte polemiche, perché in un primo tempo anche gli epidemiologi svedesi hanno usato l’espressione «immunità di gregge», precipitosamente ritirata dal dibattito dopo l’infelice uscita di Boris Johnson, che l’ha presentata come il sacrificio deliberato di migliaia di persone. L’idea dell’Agenzia per la sanità pubblica svedese è che il lockdown, oltre a implicare costi sociali ed economici altissimi, non protegge dal rischio di ondate di ritorno del contagio. La scelta degli svedesi è quindi quella di “controllare” la diffusione del virus, lasciandolo circolare – con molte precauzioni – nella società, in modo da non oltrepassare la capacità ospedaliera e arrivare gradualmente ad avere una maggioranza di immuni.
In tale prospettiva, è prioritario proteggere i gruppi a rischio (come gli anziani, soprattutto quelli con patologie pregresse), testando solo le persone con sintomi acuti e introducendo alcune restrizioni, ma soprattutto affidandosi a una serie di raccomandazioni; contando cioè, più che sui divieti, sulla persuasione.
Il contesto di cui parlano gli epidemiologi svedesi è quello di una società con:
■ un relativo distanziamento sociale “spontaneo”, indotto cioè dalla scarsa densità di popolazione (gli svedesi sono 10 milioni, su un territorio che è una volta e mezzo quello italiano) e dal clima;
■ uno stile di vita e una composizione dei nuclei famigliari diversi dai nostri;
■ un’alta fiducia sia verso le istituzioni sia verso gli altri genericamente intesi (un dato, questo, che salta subito agli occhi del visitatore straniero), nonostante l’ascesa del partito populista di destra, criptonazista, i Democratici di Svezia, che qualche problema segnalerà pure, nella democrazia svedese.
È in questa luce che vanno letti i provvedimenti adottati.
Come si affronta il coronavirus in Svezia
Il governo – di minoranza, composto di socialdemocratici e verdi – ha proibito gli assembramenti con più di 50 persone (fino al 29 marzo il tetto era 500); ha proibito le visite alle case di riposo (fino al 30 marzo il divieto era a discrezione dei comuni); non ha chiuso le frontiere (se non ai voli provenienti da paesi non europei, accogliendo un’indicazione dell’UE), né le attività produttive e commerciali o le scuole; tuttavia dal 10 aprile i locali che non mantengono la distanza di sicurezza tra i clienti saranno prima multati, poi chiusi, se perseverano, e gli istituti di istruzione secondaria superiore, i corsi per adulti e gli atenei sono stati invitati a partire dal 19 marzo ad adottare la didattica a distanza. È stato altresì incoraggiato il telelavoro ovunque possibile, e per tutti valgono le raccomandazioni di seguire le elementari norme igieniche, di distanziamento sociale e di prudenza: stare a casa se si hanno anche solo sintomi lievi o dubbi, non spostarsi se proprio non è necessario, ecc.
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