venerdì 11 dicembre 2020

12 dicembre 1969. Piazza Fontana. in Memoria di Carlo Garavaglia negoziante in Ossona

 Ci sono voluti 50 anni perchè l'est ticino ricordasse e riconoscesse il giusto tributo a Carlo Garavaglia.

Carlo Garavaglia per la comunità ossonese negli anni 60 era una figura di riferimento; il motivo stesso per cui si trovava quel venerdì alla banca dell'agricoltura.

Ci sono voluti 50 anni,  perchè solo l'anno scorso, grazie a una mostra presso il Comune di Mesero venisse ricordato. Purtroppo, nella cornice della mostra, veniva edulcorata per non dire mistificata la situazione politica di fine anni '60; però, almeno ne han parlato.

La nota triste è che in questi anni, mai le amministrazioni comunali di Ossona abbiano partecipato alle iniziative di commemorazione della strage in piazza fontana, ogni anno il 12 dicembre.

articolo di Giovanni Russo Spena del 12 dicembre 2019, a seguire biogerafie di Carlo Garavaglia a cura di Logos

Piazza Fontana 50 anni dopo. Storia di una democrazia fragile e secretata

 Fontana, il 12 dicembre, l’Italia si accorse della fragilità della sua democrazia. Lo stragismo italico del secondo dopoguerra aveva, certo, già colpito duramente, a partire dall’uso della mafia contro i braccianti in lotta per la riforma agraria a Portella della Ginestra. Ma tuttavia, nei poveri corpi dilaniati di Piazza Fontana come nella defenestrazione di Pinelli come nella carcerazione di Valpreda viene tracciato un solco profondo della storia d’Italia. Una tragica discontinuità, che dall’uccisione di Mattei, a piazza Fontana, giunge fino a Brescia, a Bologna, ad Ustica e sino alla uccisione di Ilaria Alpi e Hrovatin, vittime dei traffici di armi e droghe mascherate come cooperazione. Quale è il punto? Sono stragi ossessivamente accomunate dal sistematico “depistaggio” di organi dello Stato per impedire che si pervenisse alla verità sulle responsabilità delle stragi. Occultando il criminale intreccio tra servizi, fascisti (e, a volte, criminalità organizzata). Sono stato componente della commissione bicamerale del Parlamento che indagava sulle stragi; non a caso la Commissione, dopo approfondite ricerche, chiese al Parlamento di introdurre nel codice penale lo specifico reato di “depistaggio”. Invano. Nulla cambiò. Sono stato, successivamente, a cavallo del 2000, relatore, in Commissione Antimafia, per l’indagine sull’uccisione di Peppino Impastato, a 22 anni del suo assassinio da parte della mafia. Scrissi, a nome dell’intera Commissione, all’inizio della relazione:”Italiane e Italiani, a nome dello Stato italiano vi chiediamo scusa. Avremmo potuto, infatti, scoprire immediatamente che Impastato fu ucciso dalla mafia. L’abbiamo scoperto solo ora, 22 anni dopo, perché settori dei Carabinieri e della magistratura depistarono l’inchiesta non permettendo che si giungesse alla evidente verità”. Altro

grave vulnus democratico, collegato, fu l’apposizione sistematica del segreto di Stato. Di cui ancora oggi chiediamo la “desecretazione”. Quella molto parziale, avvenuta negli ultimi anni, è stata, spesso, una presa in giro. Ma chiediamoci: le bombe di piazza Fontana volevano destabilizzare, come, per autodifesa, propagandò il potere costituito? No, esse volevano proprio stabilizzare il potere, preservarlo dalla critica di massa. Ci ricordavano, con il massacro, lo stato di “sovranità limitata” del nostro paese nello scacchiere geopolitico di Yalta, che ci ingabbiava dentro la Nato e l’egemonismo USA. E, nelle dinamiche sociali interne, tentavano di far scattare il “riflesso d’ordine”, chiudendo il biennio rosso ‘68/’69, frantumando l’unità di classe che si era realizzata, rinchiudendo nuovamente gli studenti nell’ordine disciplinare delle scuole e lavoratrici e lavoratori nella disciplina gerarchica delle aziende, tentando di abbattere antagonismi ed autoorganizzazione. Che cosa, infatti, faceva paura alla borghesia? La saldatura, che solo in Italia si era realizzata, nel nostro “lungo’68 “, tra studenti e lavoratori contro i processi di valorizzazione del capitale, che cominciava a globalizzare se stesso con una forte torsione liberista ed una feroce ristrutturazione tecnologica. La sfida divenne aspra tra autonomia dei saperi operai e del lavoro da un lato e tentativo di sussunzione dei saperi dentro un capitale che non era restauratore ma anarchico (in senso marxiano). Si parlò (e si parla tuttora) di “servizi deviati”, di “Stato parallelo”. Non concordo. Furono organi dello Stato, suoi settori che si misero al servizio della ristrutturazione capitalistica diventandone braccio armato, attori della “strategia della tensione”. Oggi, quindi, 50 anni dopo, non intendiamo solo ripetere un rito, ma collegare memoria storica alla necessaria lotta democratica di oggi. Perché il filo nero delle tendenze autoritarie unisce, purtroppo, quel lontano 12 dicembre alla realtà politica attuale. Presidenzialismo di fatto, plebiscitarismo, emergenzialismo, distorsione nel rapporto tra Stato di diritto e formazione sociale hanno, a ben vedere, radici culturali ed istituzionali comuni con la “strategia della tensione”. Perché a piazza Fontana la democrazia italiana perse definitivamente la sua innocenza. Scrisse, con lucida ed aspra sintesi, Franco Fortini:” le bombe le mette chi vuol ridurre soggetti umani vivi, capaci di lotte e progetti, a carne di macello”. Ci volevano impauriti, gerarchizzati, omologati, schiacciati dalle bombe. Riuscimmo a resistere, invece. Reagimmo con l’azzardo della ribellione alla “verità di Stato” e addirittura con una coraggiosa e scientifica controinformazione. Riuscimmo a realizzare una splendida controinchiesta che osò gridare nelle piazze, nelle fabbriche, nelle aule, la “strage è di Stato”. Per noi questa è memoria, è metafora di una ferita aperta, di una negazione della politica, diventata ancella dell’economia, del pensiero unico del mercato. Qui siamo. Perché anche oggi la questione democratica allude alla irrisolta questione sociale: ai deserti di socialità delle nostre metropoli, alle guerre, alle iniquità ed alle crescenti disuguaglianze. Ancora come 50 anni fa, ci ribelliamo, ricerchiamo, osiamo.

Da Logos, Carlo Garavaglia

CHI ERA CARLO GARAVAGLIA
Carlo è nato a Casone il 9 agosto del 1902, da Carolina Cucchi e Marco Garavaglia. Come era in uso all’inizio del Novecento, in famiglia erano in undici figli. Purtroppo, solo in cinque hanno raggiunto la maggiore età: Carlo, Giuseppe, Luigi, Antonia e Maria. La famiglia Garavaglia viveva in via San Carlo, al civico 16. Ha frequentato le scuole Elementari di Casone. Terminate, ha cominciato a fare il garzone in una macelleria. Successivamente, con il fratello Giuseppe, ha aperto un negozio di macelleria a Magenta, nella centralissima via Pretorio. Dopo essersi sposato Attualità - Carlo Garavagliacon Francesca Mazza, si è trasferito a Corsico e qui la coppia ha avuto due figli: Eugenio e Eugenia. Purtroppo, il primo figlio è deceduto a soli 19 mesi, mentre la seconda, nata nel 1932, è attualmente vivente. Dopo aver chiuso il negozio di Magenta, ne ha aperto un altro a Milano, mentre il fratello Giuseppe ne aveva uno ad Ossona. Nel 1953 è deceduto Giuseppe e ha lasciato due orfane minorenni: Franca e Marisa. Lo zio Carletto si è occupato di loro come un padre: “Adesso non ho più una figlia ne ho tre” e ha gestito il negozio di Ossona. Il giorno della sua morte era in banca come mediatore di bestiame. Abitava a Corsico, con la figlia Eugenia, il genero Luigi Passera (che è stato il presidente dell’Associazione familiari delle vittime di piazza Fontana) e la nipote Elisabetta. Dopo i funerali, che si sono svolti nel Duomo di Milano, il 15 dicembre 1969, la bara è stata trasportata per essere tumulata al cimitero di Corsico. Il carro funebre è transitato per il centro della cittadina, tra due ali di folla. Al suo passare le persone si sono inginocchiate sull’asfalto. Carlo riposa accano alla moglie Francesca e al figlio Eugenio.

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