17 agosto 1995, stadio San Siro.
Le caviglie malandate ormai da due anni gli impediscono di svolgere la professione per la quale gli Dei dello sport lo hanno forgiato a loro immagine e somiglianza. Via via si sono arresi tutti davanti a un'inspiegabile evenienza: dottori, fisioterapisti, maghi e financo improbabili donatori di cartilagine, la sua kryptonite. C'è pertanto qualcosa di impossibile anche per chi proprio dell'impossibile - un gol in volo d'angelo nell'inferno del Bernabeu, per esempio - ne ha fatto un esercizio routinario. È la scienza che appone i propri paletti senza guardare in faccia a nessuno.
Marco Van Basten si presenta alla Scala del calcio in borghese, indossa dei jeans, un giacca di renna sopra una camicia rosa. Il vestiario conta poco ma dice molto: è davvero tutto finito. Il Cigno di Utrecht, con un palmares debordante incastonato alle spalle, entra nel prato che più di ogni altro ne è stato casa e palcoscenico. Solleva le mani, abbozza forse un sorriso, cammina lento. Di sicuro gli scorrono nella mente i fotogrammi di ciò che è stato, con l'orgoglio del campione che non lo esenta dalla commozione perché è pur sempre uomo.
I presenti scorgono la sua sagoma inconfondibile già dall'uscita del tunnel e schizzano in piedi con naturale sincronismo, all'unisono, come diretti da un invisibile direttore d'orchestra. Hanno storie e provenienze diverse ma un'altra cosa li accomuna: piangono tutti. E per una volta tifosi spesso eccessivi riescono a non apparire fuori luogo.
Se è vero che lo sport come la vita, della quale è formidabile paradigma, sopravvive senza drammi all'alternanza naturale dei suoi illuminati protagonisti, è vero altresì che non è affatto scontato che chi farà seguito sarà all'altezza di chi lo ha preceduto. La realtà è che nel caso di Van Basten, come Tomba, Bernardi o Pantani, campioni che per desossiribonucleico lo sono un po' più degli altri, il paragone è insindacabilmente impietoso. E mentre a calcio si continua ovviamente a giocare, è pertanto sul come che ci si trova in difetto.
Ventisette anni fa, passa il tempo.
Leggenda vuole che quella caviglia fragile e subdola che ne ha dettato i tempi della carriera fosse affetta da un difetto congenito come parte di un copione già scritto, bello e maledetto. È proprio vero: la perfezione non esiste.
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