giovedì 18 agosto 2022

Marco Van Basten. 17.8. 1995. Il ricordo di Matteo Parini

 17 agosto 1995, stadio San Siro.

Le caviglie malandate ormai da due anni gli impediscono di svolgere la professione per la quale gli Dei dello sport lo hanno forgiato a loro immagine e somiglianza. Via via si sono arresi tutti davanti a un'inspiegabile evenienza: dottori, fisioterapisti, maghi e financo improbabili donatori di cartilagine, la sua kryptonite. C'è pertanto qualcosa di impossibile anche per chi proprio dell'impossibile - un gol in volo d'angelo nell'inferno del Bernabeu, per esempio - ne ha fatto un esercizio routinario. È la scienza che appone i propri paletti senza guardare in faccia a nessuno.

Marco Van Basten si presenta alla Scala del calcio in borghese, indossa dei jeans, un giacca di renna sopra una camicia rosa. Il vestiario conta poco ma dice molto: è davvero tutto finito. Il Cigno di Utrecht, con un palmares debordante incastonato alle spalle, entra nel prato che più di ogni altro ne è stato casa e palcoscenico. Solleva le mani, abbozza forse un sorriso, cammina lento. Di sicuro gli scorrono nella mente i fotogrammi di ciò che è stato, con l'orgoglio del campione che non lo esenta dalla commozione perché è pur sempre uomo.

I presenti scorgono la sua sagoma inconfondibile già dall'uscita del tunnel e schizzano in piedi con naturale sincronismo, all'unisono, come diretti da un invisibile direttore d'orchestra. Hanno storie e provenienze diverse ma un'altra cosa li accomuna: piangono tutti. E per una volta tifosi spesso eccessivi riescono a non apparire fuori luogo.

Se è vero che lo sport come la vita, della quale è formidabile paradigma, sopravvive senza drammi all'alternanza naturale dei suoi illuminati protagonisti, è vero altresì che non è affatto scontato che chi farà seguito sarà all'altezza di chi lo ha preceduto. La realtà è che nel caso di Van Basten, come Tomba, Bernardi o Pantani, campioni che per desossiribonucleico lo sono un po' più degli altri, il paragone è insindacabilmente impietoso. E mentre a calcio si continua ovviamente a giocare, è pertanto sul come che ci si trova in difetto.

Ventisette anni fa, passa il tempo.

Leggenda vuole che quella caviglia fragile e subdola che ne ha dettato i tempi della carriera fosse affetta da un difetto congenito come parte di un copione già scritto, bello e maledetto. È proprio vero: la perfezione non esiste.



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