venerdì 24 novembre 2017

IL ‘FLOP’ TEDESCO E LA BEFFA SULL’EMA: UNA LEZIONE PER L’ITALIA

Riceviamo e volentieri pubblichiamo
L'articolo di Monica Frassoni uscito su Il Fatto Quotidiano in cui parla del 'flop' della coalizione tedesca "Giamaica" e la beffa subita dall'Italia per la questione Ema

La coalizione Giamaica tra i conservatori tedeschi della Cdu-Csu, i liberali della Fdp e i Verdi è affondata a seguito della rinuncia della Fdp: i liberali di Christian Lindner hanno fatto armi e bagagli e, affermando pubblicamente di preferire nessun governo a un malgoverno, hanno abbandonato il tavolo dei negoziati.

Sono tre i fattori principali intorno contro i quali sono naufragati questi “colloqui esplorativi” (Sondierungsgespräche):Europa, clima e migrazione, simboleggiate da tre posizioni lontane fra loro fin dall’inizio. Da una parte, infatti, i Verdi che chiedevanomisure più efficaci per lottare contro i cambiamenti climatici, tra cui la chiusura delle 20 centrali a carbone più inquinanti del paese e la continuazione di una politica aperta in materia di immigrazione ed Europa. Dall’altra, i liberali e neoliberisti Fdp sostenitori della più rigida austerità fiscale in Europa (ancora più rigida rispetto a quella cui Schäuble ci aveva abituati) e contrari alla solidarietà. Dall’altra ancora, gli unionisti bavaresi della Csu severamente contrari alla migrazione e soprattutto ai ricongiungimenti familiari, che obbligano nel limbo migliaia di mogli, mariti, figli, genitori rimasti nelle isole greche o in Turchia dopo l’esodo del 2015.
Si è tentato di raggiungere dei compromessi tra queste posizioni molto lontane e, a detta sia di Angela Merkel che dei Verdi, si era quasi riusciti. I liberali hanno tentato fino all’ultimo di staccare la Csu bavarese da Merkel per creare un fronte di destra dura contro la Cancelliera, ma non ci sono riusciti e alla fine hanno avuto paura di governare. La polemica contro la loro mancanza di coraggio in Germania è forte. Senza i liberali, ora non resta che un governo di minoranza Cdu-Verdi (che non pare probabile), una nuova Grosse Koalition con i social-democratici (che la SPD – per ora – non vuole), oppure nuove elezioni (che il presidente Steinmeier non vuole). Tutti i partiti politici, tranne i Verdi, sono divisi sul da farsi.
Il dato che emerge, molto importante anche per il dibattito italiano, è che diventa sempre più forte e chiara la linea di spartizione tra un fronte di apertura, progressista, che resiste cercando di governare al meglio mutamenti epocali come l’austerità e le diseguaglianze, i cambiamenti climatici e le migrazioni, e un fronte che cede al grande business e alle grida xenofobe della destra amica di Salvini. In mezzo sta Angela Merkel, che finora è riuscita a governare queste posizioni lontane anche con la complicità di una Sdp succube e senza idee, e che ovviamente si trova tanto più in difficoltà quanto più diventano indispensabili delle scelte chiare. Vedremo cosa succederà in Germania, ma io non sono così convinta che saranno le posizioni dure e di destra ad averla vinta.
Quanto all’Italia, in un momento storico in cui la questione dell’identità politica, culturale perfino sociale diventa di nuovo determinante e l’idea della “mixité” perde velocità e appeal, l’elettorato più aperto e progressista è indubbiamente sfiduciato, quando non disorientato da messaggi contraddittori. Chi si candida al governo deve invece necessariamente avere un programma positivo ed esplicito, privo di ambiguità e tentennamenti proprio su Europa, migranti e clima.
La scelta dell’ambiguità e della rincorsa al consenso su posizioni eco-indifferenti per fare piacere a questo o quel potere economico, lasciando da parte la vastissima platea degli operatori “verdi” di fatto, le imprese, i cittadini consapevoli, le associazioni, sarebbe una scelta miope. E cavalcare come fa Minniti le ragioni e il cinismo della destra non fa che rafforzare e avvalorare gli argomenti divisivi e razzisti di Salvini e compagni, che ormai dilagano nell’opinione pubblica e incontrano solo una debole resistenza, pur se sul territorio non mancano bellissimi esempi contrari.
Quanto al ruolo dell’Italia in Europa, la vicenda dell’Agenzia europea per i medicinali (Ema) dimostra chiaramente, al di là della sfortuna e del lodevole gioco di squadra, che è inutile urlare alla UE pusillanime o bara: quella per la nuova sede dell’Ema è stata una scelta esclusiva dei governi nazionali, le istituzioni Ue non c’entrano e il processo è stato voluto fortemente da Donald Tusk, pur se sostenuto da Juncker. È chiaro che un processo più basato sul merito della candidatura, aperto e con la partecipazione anche del Parlamento europeo ci avrebbe avvantaggiati. Proprio alla luce degli eventi dell’Ema, dovrebbe essere evidente a tutti che noi avremmo solo da perdere da un ulteriore indebolimento delle istituzioni e procedure comuni della Ue, dato che la battaglia navale fra i governi e i rapporti di forza attuali non ci favoriscono, con buona pace delle urla degli anti-europei che non sanno come vanno le cose – di certo non bene – a Bruxelles e sparano regolarmente sul bersaglio sbagliato.
È inutile anche negare che l’Italia non è abbastanza credibile al momento delle scelte neppure per paesi amici come la Spagna o la Germania, i quali, a quasi parità di merito, preferiscono un paese del Nord. Nonostante il lavoro di squadra encomiabile, non è da escludere, inoltre, che quel Maroni al governo della Lombardia, che fa parte di un partito alleato con Marine Le Pen e che gigioneggia con l’autonomia (quando non con la secessione), non sia esattamente rassicurante, come pure la prospettiva di un governo targato Grillo o Berlusconi-Salvini tra qualche mese. Giusta o sbagliata che sia, è una realtà che tutti, anche chi si atteggia a difensore dell’anima pura di una sinistra perfetta, dovrebbe comprendere e cercare di contrastare nell’imminenza delle elezioni.
Sono questi gli elementi di rottura che dovrebbero segnare la svolta tra forze che bisticciano di politica e forze che si candidano alla guida di un paese. Anche e soprattutto in Italia, dove, anche tra i “progressisti”, ci si ostina ancora a pensare che su questi temi le elezioni non si possono vincere. Ma, si sa, non si può vincere una battaglia se si rinuncia in partenza a combatterla.
Questo articolo è uscito su Il Fatto Quotidiano

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