venerdì 22 agosto 2025

Bologna. A volte vincono gli ambientalisti. 22.8.2025

 DEBUNKING REPUBBLICA SUL GIARDINO SAN LEONARDO                      

Il caso del Giardino San Leonardo non è una storia di cittadini “ideologici” che bloccano il progresso. È, piuttosto, la storia di un’operazione di scambio opaca tra amministrazione comunale e Johns Hopkins University, naufragata per ragioni che il Comune ha cercato in tutti i modi di occultare, costruendo una narrazione a proprio vantaggio e scaricando le colpe sul comitato .Il cuore dell’accordo non era il decoro, ma la caffetteria, fin dall’inizio, la vera contropartita non era la cura del giardino, ma la concessione di spazi commerciali nell’area pubblica. La caffetteria dell’ateneo, fino ad allora interna e riservata, sarebbe diventata accessibile al pubblico, con tavolini nel giardino. Un’operazione apparentemente innocua, ma che avrebbe garantito a Johns Hopkins non solo prestigio, ma anche una posizione strategica di presidio in un’area centrale, con un punto di incontro simbolico tra “università globale” e città. L’amministrazione, presentando questa opzione come “valorizzazione del verde” e “cura del decoro”, ha occultato il dato reale: un pezzo di spazio pubblico stava per essere concesso a un privato. Quando la protesta esplode, la narrativa ufficiale la riduce a “eco-attivisti contro tre allori” e, successivamente, a un rifiuto ideologico legato a “vicinanze geopolitiche scomode” (Israele). In realtà, il comitato ha colpito nel segno fin dall’inizio, evidenziando la pericolosità di un precedente: un giardino pubblico ridotto a pertinenza di un’università d’élite. Ma c’è un punto che il Comune non ammette: le mobilitazioni hanno reso inattivabile la concessione commerciale, trasformando la caffetteria in un obiettivo sensibile. Un luogo di presidio e contestazione permanente, esposto a danneggiamenti, tensioni e rischi per la sicurezza. Per un ateneo come Johns Hopkins, che basa la sua immagine su prestigio e stabilità, questo era un rischio insostenibile. È qui che il progetto crolla. Non per i tre allori, non per il “no a Israele”, ma perché la condizione essenziale dell’accordo non era più praticabile.

 Di fronte a questo scenario, l’assessore Raffaele Laudani convoca un’assemblea con il comitato e i cittadini. Un incontro presentato come un atto di dialogo, con tanto di promessa di salvare gli allori e “ripensare il progetto”. Ma è probabile che il Comune sapesse già che senza la caffetteria aperta al pubblico l’operazione era morta.

L’incontro, dunque, non era finalizzato a trovare una soluzione, ma a costruire la narrazione dell’occasione persa per colpa del comitato. La frase di Laudani – «Vi prendete la responsabilità che tutto resti così» – non era una constatazione, ma un dispositivo retorico per addossare il fallimento a chi aveva denunciato l’operazione. Quella riunione è stata un teatro politico: mentre si parlava di tavoli tecnici e mediazione, il Comune stava già preparando la versione ufficiale, pronta a circolare sui giornali.

Le fake news istituzionali:

L’articolo uscito sui media locali è il prodotto di questa strategia. Contiene tre elementi chiave di disinformazione:

1. Il problema ridotto agli allori e al decoro – Il nodo vero (la concessione commerciale) scompare, sostituito dalla caricatura di attivisti che difendono tre alberi.

2. Il rifiuto ideologico come colpa – Si introduce il frame del “no a Johns Hopkins perché vicino a Israele”, per dipingere la protesta come settaria e irrazionale.

3. Il Comune come mediatore ragionevole – Si accredita l’immagine di un’amministrazione aperta e dialogante, che “ci ha provato”, quando in realtà ha agito sapendo che l’accordo era già saltato.

Questo storytelling non è casuale: serve a proteggere il Comune da una verità politicamente imbarazzante, cioè aver lavorato a uno scambio non dichiarato con un soggetto privato, senza trasparenza, e averlo perso per sottovalutazione del conflitto sociale.

Conclusione: il fallimento è politico

Il ritiro di Johns Hopkins non è il frutto di un “integralismo ambientalista”. È il risultato di una trattativa opaca che è esplosa alla luce del sole. Un’operazione di scambio mascherata da filantropia, condotta senza un vero dibattito pubblico, e gestita con una strategia comunicativa che ha preferito mentire anziché ammettere l’errore.

Il nodo politico: investire risorse pubbliche

Se c’è una lezione da trarre da questa vicenda, è che la cura degli spazi pubblici non può dipendere da concessioni opache a soggetti privati. Il Giardino San Leonardo è patrimonio collettivo e come tale deve essere gestito.

L’argomento del Comune – “non ci sono risorse” – è poco credibile se pensiamo che la cifra necessaria per la riqualificazione del giardino non è molto distante da quanto già speso per iniziative discutibili, come i cento alberi in vaso posizionati nelle piazze cittadine, operazione dal forte sapore di greenwashing.

Se Bologna può investire centinaia di migliaia di euro in un allestimento temporaneo di alberi trasportati su camion, può destinare una cifra simile alla rigenerazione vera di un giardino storico, senza cedere pezzi di spazio pubblico a logiche di scambio.

La domanda, dunque, non è “chi pagherà?”, ma “quali sono le priorità?”. Il Comune ha l’occasione di dimostrare che la cura della città non è un’operazione di marketing, ma un impegno concreto verso i cittadini.



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